Valutazione della composizione corporea: come (e perché) calcolare massa grassa e massa magra
La valutazione della composizione corporea, con il calcolo della massa grassa e della massa magra, permette di definire in modo puntuale lo stato fisico di una persona. Un passaggio fondamentale per impostare una dieta corretta, andando oltre la semplice quantificazione del peso. I metodi per misurare la composizione corporea sono diversi, i più diffusi sono plicometria e impedenziometria. Vediamo bene come funzionano e quali sono i livelli di massa grassa e massa magra di riferimento per considerarsi in buona forma fisica.
Di solito, la principale preoccupazione di chi ha a cuore la propria forma fisica è il peso. Non a caso, la bilancia diventa spesso il nemico numero uno di chi decide di mettersi a dieta. L’obiettivo, per tutti, è perdere peso. Eppure, i nutrizionisti sanno bene (e tentano di spiegare ai loro pazienti) che il peso è solo una delle variabili da tenere in considerazione e, se trattato come valore assoluto e non confrontato con altri dati, rischia di essere addirittura fuorviante. Molto più importante, invece, è il concetto di composizione corporea, che prende in considerazione il livello di massa grassa e di massa magra presente nel corpo. Se si guardasse solo il peso, infatti, un bodybuilder con molti muscoli potrebbe essere equiparato a un uomo obeso (che invece ha molto grasso). Cosa fa la differenza? Proprio la composizione corporea. Ed ora vediamo meglio perché.
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Cos’è la composizione corporea e cosa di intende per massa grassa e magra
La definizione di composizione corporea è piuttosto semplice e intuitiva. Si tratta, infatti, di una
visione complessiva degli elementi che compongono l’organismo umano.
L’analisi e lo studio di tale composizione possono avvenire a diversi livelli: da quello atomico, il più piccolo, a quello anatomico, passando per quello molecolare e per quello cellulare. Questi ultimi due, in realtà, sono i più diffusi, soprattutto nel campo della nutrizione e dello sport, settori in cui la composizione corporea è particolarmente rilevante.
Quando si parla di composizione corporea, i concetti che assumono rilevanza sono essenzialmente due (modello bicompartimentale):
- Massa grassa (FM – Fat Mass), cioè il totale di lipidi presenti nel corpo;
- Massa magra (FFM – Fat Free Mass), cioè tutto ciò che non rientra nella massa grassa (muscoli, ma anche ossa, acqua e organi).
La diversa percentuale della massa magra e della massa grassa restituiscono una fotografia più attendibile dello stato di forma fisica rispetto al solo peso in kg.
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L’indice di massa corporea (BMI)
Quando si parla di composizione corporea è bene sottolineare la sua differenza rispetto all’indice di massa corporea. Il BMI (body mass index), infatti, è solo uno dei metodi (tra i più rudimentali) per valutare la composizione corporea. Tale indice, infatti, si ottiene applicando una semplice formula matematica che divide il peso (espresso in chilogrammi) per il quadrato dell’altezza (espresso in metri):
BMI = peso/(altezza*altezza)
Il risultato va poi confrontato con una scala di valori di riferimento, che colloca i normopeso nella forbice tra 18 e 25. Per valori inferiori a 18 si è considerati sottopeso, per quelli superiori a 25 si è classificati come sovrappeso.
L’indice di massa corporea, però, soffre degli stessi difetti di una valutazione basata sul solo peso. Basti pensare, infatti, che gli atleti che praticano bodybuilding hanno normalmente valori superiori a 25, senza per questo poter essere considerati obesi.
Leggi anche l’approfondimento sulla dieta chetogenica
Come calcolare le percentuali di massa grassa e massa magra
La misurazione della composizione corporea può avvenire secondo diverse tecniche, che differiscono tra di loro anche per il livello di precisione e attendibilità che riescono a raggiungere. Le principali modalità di calcolo delle percentuali di massa grassa e massa magra sono le seguenti:
- Plicometria: attraverso un apposito strumento, chiamato plicometro, si procede a misurare lo spessore del pannicolo adiposo in specifiche zone del corpo (come, ad esempio, tra l’ascella e il capezzolo); è un metodo accurato, purché eseguito da un professionista esperto.
- Bioimpendenziometria: si realizza grazie ad un apposito macchinario che, a contatto con mani e/o piedi, rilascia nel corpo umano un’impercettibile scarica elettrica; la capacità di penetrazione di questa scarica nei tessuti, permette di identificare la presenza di grasso; anche in questo caso il livello di precisione è buono, è indipendente da errori umani ma può essere influenzato dal livello di idratazione dell’organismo.
- Densitometria (DEXA): è il test più attendibile, perché sfrutta le radiazioni, ma anche il meno accessibile e il più costoso (perché richiede l’uso di un macchinario complesso).
- Dosaggio del potassio 40: il potassio 40k è un isotopo radioattivo, quindi emette costantemente segnali gamma e questo permette di utilizzarlo per valutare la quantità di massa magra e, per esclusione, quella di massa grassa.
Tra questi, i metodi più utilizzati sono senza dubbio i primi due, perché uniscono un buon livello di precisione con una relativa facilità di misurazione.
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Il Body Scanner di ultima generazione
Una menzione a parte, tra gli strumenti di valutazione della composizione corporea, lo merita il body scanner di ultima generazione Fit 3D di A-Wave, utilizzato anche presso i miei studi. È un macchinario prodotto negli Stati Uniti, che fornisce una scheda dettagliata del paziente, con la raffigurazione reale in 3D del suo corpo. In questo modo, consente di vedere, valutare e correggere tutti i minimi difetti e monitorare l'andamento con una precisione del 100%. È perfetto soprattutto nel trattamento delle persone obese e degli atleti. Non a caso, uno dei 10 esemplari presenti in Italia, è in dotazione alla squadra dell’Inter.
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La composizione corporea ideale: i valori di riferimento
A prescindere dal metodo di misurazione utilizzato, i due dati principali che escono da una valutazione della composizione corporea sono la percentuale di massa grassa e quella di massa magra. Quali sono, però, i valori di riferimento con cui queste cifre vanno confrontate per capire la situazione? Soprattutto, quale deve essere la percentuale di massa grassa per essere considerati in buona forma? Premesso che una valutazione compiuta deve prendere in considerazione diverse variabili e deve quindi essere realizzata da un medico professionista, qualche parametro di riferimento può essere comunque indicato.
Per gli uomini, un livello buono di massa grassa è quello che si colloca tra il 15% e il 20%. Sotto questa soglia, si trovano i fisici particolarmente atletici (considerando che sotto il 5% non è consigliabile scendere, perché si rischierebbe la vita), sopra quelli con problemi di sovrappeso o addirittura obesità. Per le donne, invece, le percentuali si alzano leggermente. È nella norma una massa grassa tra il 20% e il 25%. Nella valutazione, però, va tenuta in forte considerazione l’età, perché, con il crescere degli anni, la percentuale di massa grassa tende fisiologicamente ad aumentare e quindi livelli più alti sono comunque accettabili.
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La frutta fa ingrassare?
La frutta fa ingrassare? La risposta è sì. Il motivo? Contiene molti zuccheri. Ecco perché chi segue una dieta chetogenica deve avere alcune accortezze nel consumo di frutta, altrimenti rischia di mettere a repentaglio i risultati della dieta e quindi dei propri sforzi. Un tema delicato, che merita di essere approfondito.
Il rapporto tra frutta e diete low carb (tra cui anche la keto diet) è piuttosto turbolento. Chi si approccia per la prima volta con questo tipo di regime alimentare, infatti, si trova davanti una prescrizione piuttosto netta e insolita: consumare frutta con estrema moderazione o non mangiarla affatto. Un’indicazione che va controcorrente rispetto al pensiero comune, che invece invita a consumare frutta e verdura in grandi quantità, senza troppe remore, perché si tratterebbe di alimenti sempre benefici. Il motivo di questo divieto? La frutta fa ingrassare. Questa risposta, però, merita un approfondimento che la possa spiegare meglio. E nell’approfondire, è bene partire dal conoscere il contenuto di quello che comunemente chiamiamo frutta.
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Da cosa è composta la frutta?
Sotto l’etichetta di frutta si incontrano cibi anche piuttosto diversi tra loro. Dal punto di vista del gusto e della composizione, si possono identificare quattro tipologie di frutta: quella zuccherina (come le banane), quella acidula (come gli agrumi), quella acidula – zuccherina (come mele e pere) e quella secca (come noci e nocciole). La principale componente della frutta è l’acqua, presente per una quota intorno all’85%. L’altro elemento presente è lo zucchero (cioè carboidrati). Fa eccezione solo la frutta secca, che ha anche una dose significativa di proteine. In tutti i frutti, poi, si trovano in abbondanza vitamine, fibre e sali minerali.
Perché mangiare frutta fa ingrassare?
Il motivo per cui la frutta fa ingrassare ed è sconsigliata a chi pratica una dieta chetogenica è proprio l’elevato quantitativo di carboidrati che contiene. La presenza di zuccheri è talmente importante da far passare in secondo piano tutte le sostanze positive che pure ci sono nei frutti. Basti pensare che 100 grammi di banana contengono ben 20 grammi di carboidrati. Poco migliore la situazione dell’uva (16 grammi) o delle mele e delle pere (12 grammi). Da questi numeri è facile rendersi conto che, se si hanno a disposizione sono 20 grammi di carboidrati netti al giorno, come avviene in keto diet, per superare la soglia bastano pochi morsi del proprio frutto preferito. Tra l’altro, parlando di valori nutrizionali della frutta, è bene precisare come questa tipologia di alimento sia profondamente cambiata nel tempo, proprio in virtù dell’intervento umano nelle coltivazioni, che ha cercato renderla più gustosa (quindi con più zuccheri e meno fibre). La frutta che mangiamo oggi, disponibile in tutte le stagioni e in abbondanza, non ha nulla a che vedere con quella di cui si nutrivano i nostri avi, che l’avevano a disposizione solo per alcuni mesi.
Leggi perché i carboidrati fanno ingrassare
Frutta e diete low carb, come comportarsi?
Quindi, come deve regolarsi chi ha scelto di seguire la dieta chetogenica? La soluzione migliore è eliminare drasticamente la frutta dalla propria alimentazione. Soprattutto nelle prime settimane di keto diet, un approccio così netto aiuta a liberarsi dagli effetti della dipendenza da zuccheri. Se però proprio non si riesce a fare a meno della frutta, allora è bene moderarsi e soprattutto puntare su delle varietà che contengono pochi zuccheri, come i frutti di bosco, agrumi o frutta secca.
Leggi l’elenco della frutta consigliata in chetogenica
Quanta acqua bere al giorno? Ecco come regolarsi per mantenere la corretta idratazione
Come calcolare quanta acqua si deve bere? La domanda è fondamentale per chiunque voglia mantenersi in forma e in salute. L’acqua, infatti, è una componente fondamentale del corpo umano e mantenere la giusta idratazione è molto importante. Ecco come fare per capire il proprio fabbisogno di acqua quotidiano.
“Mangia quando hai fame, bevi quando hai sete”. Questa è la frase che più di tutte racchiude il cuore della dieta chetogenica, intesa come alimentazione sostenibile anche nel lungo periodo. Si tratta, però, di un punto di arrivo, una situazione ottimale e di equilibrio del corpo che difficilmente si verifica all’inizio di un percorso low carb. I primi passi in una nuova dieta, infatti, richiedono sempre uno sforzo per gestire gli stimoli dell’appetito e per impegnarsi a bere in modo adeguato. E proprio quest’ultimo aspetto è l’oggetto dell’articolo che segue, utile a chiarire una volta per tutte il dubbio che molti si pongono: quanta acqua bisogna bere in un giorno?
Bere acqua fa bene: l’importanza di una corretta idratazione
Prima di rispondere a questa domanda, però, è utile fare una premessa, per capire perché bere è così importante per la salute umana e perché bisogna mantenersi sempre idratati. La ragione fondamentale risiede nella composizione del corpo e in particolare dei muscoli, che sono fatti per il 75% di acqua. Questo significa che bere è un modo per nutrire i muscoli, mantenendoli elastici e tonici. Ma c’è di più. L’acqua, infatti, garantisce anche il benessere della pelle, delle articolazioni, dell’apparato digerente e di quello urinario, oltre a regolare la densità del sangue, la temperatura corporea e la produzione ormonale.
Il ruolo dell’acqua nella dieta
Se poi si guarda nello specifico la condizione di chi segue una dieta per dimagrire o per raggiungere un obiettivo di ricomposizione corporea, l’acqua acquisisce ulteriore importanza. Ovviamente l’acqua non fa dimagrire (anche se c’è chi lo sostiene) ma proprio perché svolge tutte le funzioni elencate sopra ha un ruolo chiave nel garantire salute ad un organismo che sta cercando di ricalibrarsi in un nuovo regime alimentare. Inoltre, da non sottovalutare è anche il fatto che bere molto consente di arrivare prima al senso di sazietà. Infine, nel caso specifico della keto diet, l’acqua può aiutare a contrastare alcuni effetti collaterali che possono verificarsi nella prima fase, come stitichezza e alitosi.
Come calcolare quanta acqua bere in un giorno
Fatte queste doverose precisazioni iniziali, è possibile provare a calcolare quanta acqua bere in un giorno, affidandosi ad alcune linee guida sull’argomento. Nel farlo, bisogna distinguere tra uomo e donna, che hanno fabbisogni leggermente diversi in termini di idratazione. In linea generale, facendo riferimento a persone adulte e di media corporatura, è possibile affermare che:
- un uomo deve bere circa 2,5 litri di acqua al giorno (equivalente a circa 12 bicchieri);
- una donna deve bere circa 2 litri di acqua al giorno (equivalente a circa 10 bicchieri).
Volendo essere più precisi, si può calcolare quanto bere ogni giorno considerando che per ogni kg di peso corporeo si dovrebbero assumere 30 ml di acqua.
Ovviamente, oltre al sesso e al peso, ci sono altri fattori che possono far variare questo fabbisogno, come l’età (bambini e anziani hanno più bisogno di bere, ma spesso non sentono lo stimolo) e l’attività fisica (più si è attivi, più si ha bisogno di rimanere idratati).
Attenzione, però, questi parametri vanno sempre valutati con il proprio medico di fiducia, perché la presenza di patologie o particolari condizioni fisiche può rendere necessario bere quantitativi diversi di acqua rispetto a quello indicati.
Leggi anche: Cosa bere in chetogenica
Digiuno intermittente, dimagrire con un antico segreto di benessere
Il digiuno intermittente (conosciuto anche come intermittent fasting) è un antico segreto di benessere utilizzato oggi come metodo per perdere peso. Esistono diverse tipologie di digiuno a intermittenza, di cui le più semplici da realizzare sono il digiuno 16 ore e il digiuno 20 ore. In questo approfondimento, tutte le informazioni di base su questa utile pratica, per capire come funziona e se davvero fa dimagrire.
Nel variegato mondo della nutrizione e soprattutto dell’informazione sui temi dell’alimentazione accade spesso che esplodano delle “mode”. Per un periodo di tempo più o meno lungo non si fa altro che parlare di una particolare dieta o di uno specifico segreto di benessere. Tutti ne vogliono sapere di più, tutti ne discutono, tutti lo sperimentano (o dicono di farlo). È senza dubbio un fenomeno umano ma non per questo meno insidioso. La nutrizione, infatti, è una scienza e come tale dovrebbe essere tenuta ben lontana da logiche estremamente commerciali. Tra gli argomenti che ciclicamente conquistano la ribalta c’è anche quello del digiuno come tecnica di dimagrimento, in particolare nella forma del digiuno intermittente. Ecco perché è un argomento che merita di essere approfondito con un approccio scientifico.
Cos’è il digiuno intermittente
Come detto, grazie ai media, l termine digiuno intermittente è ormai entrato a far parte del linguaggio comune. Cosa si intenda davvero per digiuno intermittente, però, non tutti lo sanno, neanche tra coloro che ne parlano. Partiamo, quindi, dalla definizione più asciutta possibile:
il digiuno intermittente è un lasso di tempo variabile (ore, ma anche giorni) durante il quale non viene introdotto cibo all’interno del nostro organismo.
L’intermittenza, quindi, è data dal fatto che nella giornata si alternato finestre orarie in cui si mangia a finestre orarie in cui non si assume cibo. A pensarci bene, la maggior parte di noi già pratica il digiuno intermittente, in modo naturale e inconsapevole. Come? Consumando l’ultimo pasto del giorno, ossia la cena, e non mangiando fino al mattino successivo si digiuna per circa 10-12 ore. C’è poi chi a volte salta i pasti perché non ha fame (in coloro che seguono una dieta chetogenica, ad esempio, accade di frequente). Infine, se ci si vuole spingere verso riflessioni ancora più generali, non si può non sottolineare come l’astensione dal cibo sia praticata dall’uomo fin dalla notte dei tempi, magari per motivi spirituali o religiosi. Il digiuno intermittente, quindi, è solo il nome più recente di un antico segreto di benessere.
8 Hour Eating Window
16 hours fasting — skipping breakfast



Come funziona il digiuno intermittente e le diverse tipologie
Il funzionamento del digiuno intermittente è basato su un equilibrio. Il grasso corporeo non è altro che energia che, se non viene prontamente usata, viene ‘stoccata’ sotto forma di riserva energetica. Servirà a far fronte a periodi di carenza. Questo significa che il nostro corpo, nei secoli, si è evoluto per sostenere fasi di digiuno.
Perciò, quando mangiamo, ingeriamo più energia di quella che possiamo immediatamente utilizzare. Tale surplus di energia viene conservata per futuri utilizzi. L’insulina è l’ormone che governa questo processo. Quando mangiamo cibo l’insulina aumenta e permette di scindere i carboidrati in zuccheri semplici. Questi zuccheri semplici vengono ‘immagazzinati’ sotto forma di glicogeno in muscoli e fegato. Tuttavia, nel muscolo e nel fegato, lo spazio è limitato e quando arrivano più zuccheri di quelli che si possono immagazzinare questi vengono convertiti ex novo in grassi. Perché lo spazio per il grasso corporeo, invece, è illimitato.
Cosa succede, invece, quando si pratica il digiuno intermittente? Si innesca un meccanismo inverso. I livelli di zuccheri nel sangue scendono e diminuisce altresì anche il valore di insulina. Questo fa sì che vengano mobilitate le riserve di glicogeno (fonte energetica preferita) e, una volta esaurite queste, viene aggredito il grasso corporeo.
Questo significa che, se mangiamo ininterrottamente da quando ci svegliamo fino a quando andiamo a dormire, non diamo al nostro corpo il tempo di mobilitare le fonti energetiche che ha già accumulato nel corso della giornata e continueremo ad ingrassare.
Dal punto di vista della pratica concreta, il digiuno intermittente si può dividere in due principali strategie:
- inferiore alle 24 ore;
- superiore alle 24 ore.
Il primo è decisamente più semplice ed accessibile ed è l’unico, pertanto, che prenderemo in considerazione. È possibile praticarlo in due modalità:
- digiuno intermittente 16/8;
- digiuno intermittente 20/4.
Il digiuno intermittente con il metodo 16/8 (senza colazione o senza cena)
In questa tipologia di digiuno alternato, nell’arco della giornata, si ha a disposizione una finestra di 8 h per consumare i pasti (senza badare troppo alle calorie (ma sicuramente alla materia prima). Per esempio, i pasti potrebbero essere consumati dalle 11.00 alle 19.00. Questo implica saltare la colazione o la cena. Il percorso è molto flessibile e va adottato alle esigenze personali.
Leggi di più sul digiuno intermittente 16 ore
Il digiuno intermittente con il metodo 20/4
Cambiano le proporzioni ma non il contenuto. Si ha a disposizione una finestra di 4 ore per mangiare e 20 ore di digiuno. I pasti potrebbero essere consumati, ad esempio, tra le 14.00 e le 18.00.
Leggi di più sul digiuno intermittente 20/4
I benefici del digiuno intermittente
Al di là delle modalità di digiuno intermittente, però, ciò che ha più senso chiedersi è se sia una pratica positiva o negativa per la salute. In sostanza: digiunare fa bene? La risposta è sì ma a una condizione: che si venga seguiti da un professionista e non ci si affidi al passaparola o al fai da te.
D’altra parte, fin dall’800 il digiuno è studiato e utilizzato a fini terapeutici. I benefici che può dare all’organismo sono molteplici:
- perdita di peso;
- aumento di energia;
- controllo delle patologie legate a sovrappeso ed obesità (diabete di tipo II, sindrome metabolica etc.)
- miglioramento della salute delle ossa;
- miglioramento della salute cardiovascolare;
- diminuzione del rischio di insorgenza di malattie infiammatorie;
- diminuzione del rischio di insorgenza di tumori;
- aumento della concentrazione e delle prestazioni cognitive.
Il merito di tutti questi benefici è legato soprattutto al calo dei livelli di insulina che il digiuno provoca. Benefici che sono addirittura amplificati se al digiuno intermittente si affianca la dieta chetogenica. Attenzione, però, perché se usato in modo sbagliato, il digiuno può anche apportare notevoli danni al nostro organismo. Ecco perché, come già detto, serve la supervisione di un professionista.

Il digiuno intermittente con il metodo 16/8 (senza colazione o senza cena)
In questa tipologia di digiuno intermittente, nell’arco della giornata, si ha a disposizione una finestra di 8 h per consumare i pasti, senza badare troppo alle calorie (ma sicuramente alla materia prima). Per esempio, i pasti potrebbero essere consumati dalle 11.00 alle 19.00. Questo implica saltare la colazione o la cena. Il percorso è molto flessibile e va adottato alle esigenze personali.
Digiuno intermittente di 8h. Le immagini in verde indicano in consumo del grasso corporeo.
Il digiuno intermittente con il metodo 20/4
Cambiano le proporzioni ma non il contenuto. Si ha a disposizione una finestra di 4 ore per mangiare e 20 ore di digiuno. I pasti potrebbero essere consumati, ad esempio, tra le 14.00 e le 18.00.
Digiuno intermittente di 20h. Le immagini in verde indicano in consumo del grasso corporeo. Le immagini in rosso indicano l’accumulo di glicogeno.
Breve guida alle bevande ammesse (e a quelle vietate) in chetogenica
Non tutte le bevande possono essere consumate da chi segue una dieta chetogenica. Infatti, in molte bibite, sia alcoliche che analcoliche, c’è un’alta concentrazione di carboidrati, in forma di zuccheri. Ecco una breve guida per orientarsi.
Quando si inizia a seguire un nuovo regime alimentare è normale preoccuparsi di cosa si può e non si può mangiare. Più raro, invece, che ci si chieda cosa bere e cosa non bere. Niente di più sbagliato, perché anche tra le bevande, come tra gli alimenti, ci sono quelle ammesse e quelle da evitare. Un discorso che vale anche per chi segue una dieta chetogenica o low carb. Il fatto che le bibite siano liquide, infatti, non deve trarre in inganno: possono contenere carboidrati, ed anche in quantità molto importanti. Inoltre, c’è almeno un’altra buona ragione che deve portare a prestare attenzione a cosa si beve durante la keto diet: l’effetto psicologico. Le bevande dolci, infatti, anche nei casi in cui abbiano zero zuccheri, non aiutano a liberarsi dal legame con i cibi raffinati (che in alcuni casi assume i contorni di una vera dipendenza e come tale va contrastata). Procediamo, però, con ordine, analizzando separatamente le bevande consentite e quelle vietate in chetogenica.
Leggi anche: Alimenti concessi e vietati in keto diet
Le bevande ammesse in dieta chetogenica
Al primo posto tra le bevande ammesse c’è ovviamente l’acqua, sia liscia che frizzante. Può essere assunta senza limitazioni, l’importante è non bere mai controvoglia. E sempre senza limiti è possibile assumere thè, camomilla, tisane e infusi, ovviamente sempre e assolutamente senza zucchero. Anche nel caso del caffè (e in generale delle bevande che contengono caffeina), non ci sono controindicazioni particolari ed è possibile berne più di uno nella giornata; e ci si vuole dare una regola, si può scegliere di fermarsi a tre tazzine.
Nell’elenco delle bevande ammesse vanno inserite anche le già citate bibite zero zuccheri. Vale, però, il suggerimento accennato prima: consumarle con moderazione per non lasciarsi indurre in tentazione dal loro sapore dolce, che potrebbe portare la mente verso il desiderio di cibi vietati.
Capitolo a parte per gli alcolici. Quelli maggiormente compatibili con la dieta chetogenica sono gli spiriti, come brandy, whisky, gin, tequila, rhum, grappa. È evidente, però, che si tratta di super alcolici che devono essere consumati in quantità estremamente moderata e non certo per ragioni legate all’alimentazione. Anche il vino può essere bevuto, purché lo si faccia con moderazione, nell’ordine di massimo due bicchieri al giorno.
Ricapitolando, le bevande ammesse in chetogenica sono:
- Acqua;
- Thè, camomilla, tisane e infusi (senza zucchero);
- Bibite zero zuccheri (con moderazione);
- Vino (con moderazione, non più di due bicchieri al giorno);
- Spiriti (brandy, whisky, gin, tequila, rhum, grappa e simili).
Leggi anche: I falsi miti sulla chetogenica
Cosa non bere in keto diet
Veniamo, invece, alle bevande vietate. Cosa non è possibile bere in chetogenica? La lista delle escluse è abbastanza lunga. In testa ci sono le bevande zuccherate, cioè la maggior parte di quelle che si trovano comunemente in commercio, succhi di frutta compresi. Via anche la maggior parte degli alcolici, soprattutto uno dei più amati in Italia, cioè la birra. Si tratta, infatti, di una delle bibite più cariche di carboidrati. Difficile anche potersi concedere un cocktail alcolico o analcolico in chetogenica, perché nella maggior parte dei casi vengono realizzati miscelando almeno una bevanda ricca di zuccheri. Infine, sono banditi anche i liquori.
Dunque, ricapitolando, le bevande vietate in chetogenica sono:
- Succhi di frutta;
- Bibite zuccherate;
- Birra
- Cocktail (salvo rare eccezioni);
- Liquori.
Hai sgarrato? Niente panico, ecco cosa fare
Sgarro nella dieta, come gestirlo per non sentirsi troppo in colpa
Lo sgarro nella dieta è uno degli argomenti che suscitano maggior interesse e preoccupazione. Quante volte sgarrare? Quanto è grave concedersi uno sgarro ogni tanto? Cosa fare dopo aver sgarrato? Tutte domande lecite e che merita attenzione. Partendo, però, da un punto fermo: il cambio di mentalità che richiede la scelta di intraprendere un nuovo regime alimentare.
Ogni dieta ha il suo sgarro. O almeno questa è la percezione che si ha comunemente. Al punto che in molti piani alimentari viene espressamente previsto un pasto libero settimanale o addirittura un giorno libero, quelli che in lingua inglese si chiamano cheat meal e cheat day (popolari soprattutto nel linguaggio dei frequentatori di palestre). In altre circostanze, invece, lo sgarro non è programmato ma “capita”: una cena tra amici o di lavoro a cui non si può dire di no, una giornata caotica che costringe e mangiare fuori casa e di corsa, il desiderio particolarmente forte di un cibo “vietato”. Quando si sgarra si magia ciò che si vuole, senza preoccuparsi delle calorie e delle regole seguite per tutti gli altri pasti della settimana. Il problema, però, è che poi ci si ritrova a fare i conti con il senso di colpa e con l’ansia di aver rovinato il proprio percorso. Ma è davvero così dannoso sgarrare? Proviamo a capirlo rispondendo ad alcune delle domande più frequenti sul tema sgarro nella dieta.
Quanto fa male sgarrare dalla dieta?
Partiamo dalla gravità dello sgarro e dai presunti danni che questo provoca. E cominciamo distinguendo gli effetti sulla perdita di peso da quelli sulla motivazione, quindi sulla dimensione psicologica della dieta. Sotto il primo profilo, è corretto dire che lo sgarro è praticamente ininfluente. In un percorso alimentare serio e impostato da un esperto in nutrizione, che sia chetogenico o no, non è un pasto fuori dagli schemi a mandare all’aria tutto. Ovviamente, la cosa importante è che si rientri subito in carreggiata.
E qui viene in rilievo la seconda variabile citata: la testa. Lo sgarro spesso è una concessione ai propri desideri, un momento liberatorio rispetto alle regole della dieta vissute come costrizione. Ma se si subisce la dieta in questo modo, soprattutto in una fase iniziale, probabilmente significa che non si sono messe bene a fuoco le motivazioni. Perdere peso non può e non deve essere l’unica molla che fa decidere di cambiare alimentazione. Alla base di una scelta così importante deve esserci la volontà di modificare radicalmente la propria mentalità i termini di alimentazione, ad esempio sradicando la propria dipendenza dai cibi raffinati (che è all’origine di moltissimi problemi di sovrappeso e obesità). La vera conseguenza negativa dello sgarro, quindi, sta nella sua capacità di fiaccare la volontà. Ed è così che a uno sgarro ne segue un altro, magari a distanza ravvicinata e poi si continua a posticipare la ripresa della dieta, fino a che non si perdono le speranze. Per questo motivo, sarebbe meglio evitare lo sgarro quando si è all’inizi della nuova alimentazione mentre è possibile concederselo con più serenità quando la strada è già ben avviata.
Ecco perché non riesci a stare a dieta
Cosa devo fare dopo lo sgarro?
La seconda domanda a cui è utile dare risposta è forse la più diffusa: dottore, ho sgarrato, ora che faccio? La risposta è semplice, riprendi la dieta, subito. Non c’è bisogno di immaginare contromisure particolari, penitenze o restrizioni ancora maggiori. Semplicemente, ci si rimette sul sentiero che si stava percorrendo e che da cui si è leggermente deviato.
Scopri come controllare il senso di fame
Cosa non devo fare dopo lo sgarro?
Molto più importante, invece, è avere chiaro cosa non fare dopo che si è sgarrato con un pasto libero: non ci si deve punire. È la reazione più naturale, figlia del senso di colpa: ho mangiato troppo e male, adesso digiuno. Niente di più sbagliato. Il digiuno intermittente (nella formula 16/8 o in quella 20/4) è un’ottima pratica ma non se viene utilizzato come arma per riequilibrare un eccesso calorico. Il rischio di un atteggiamento del genere, infatti, è di abbattere ancora di più il proprio umore e di finire intrappolati in un circolo vizioso fatto di privazioni mal sopportate, frustrazione e rifiuto della dieta. Insomma, il modo migliore per indurre sé stessi alla resa. È solo uno sgarro, non è la fine del mondo.
Leggi di più sulla dieta chetogenica
I carboidrati fanno ingrassare?
Una delle ragioni principali per rinunciare ai carboidrati è che fanno ingrassare, se non si è in grado di gestirli con accortezza. Ma perché? Le ragioni hanno a che fare con il ruolo dell’insulina e con il tema della dipendenza da zuccheri e cibi raffinati. Scopri di più in questo approfondimento.
Quando si parla di ingrassare, i primi a finire sul banco degli imputati sono i grassi. D’altra parte, la stessa struttura della parola sembra indicare loro come colpevoli dello spiacevole aumento di peso: ingrassare, cioè mettere grasso. Ma è davvero così? Sono i grassi a far ingrassare? In realtà, no. Molto più probabile, invece, che i responsabili siano i tanto amati carboidrati, contenuti in moltissimi cibi di successo, come pane, pasta e frutta. A loro, infatti, è imputabile l'epidemia di sovrappeso e obesità che ha colpito la popolazione mondiale negli ultimi 30 anni. Proprio quei carboidrati che rappresentano la colonna portante di moltissimi regimi alimentari considerati sani e che invece la dieta chetogenica (e le diete low carb in generale) tendono a escludere quasi completamente.
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Perché i carboidrati fanno ingrassare? Il ruolo dell’insulina
Un’affermazione così importante, però, necessita di una spiegazione più approfondita. La domanda non può essere elusa: perché i carboidrati fanno ingrassare? La prima cosa da fare è chiarire che un argomento così complesso non può essere affrontato con affermazioni assolutistiche. Dire che i carboidrati fanno sempre e comunque ingrassare non è corretto. Ad esempio, se si è normopeso e si sa gestire la presenza di zuccheri nella propria dieta non si corre alcun rischio. Il problema è che la maggior parte delle persone non riesce ad essere così attenta. Ed è in questo caso che i carboidrati fanno ingrassare.
Il motivo principale è legato ai processi fisiologici che il consumo di questi nutrienti innesca e che coinvolgono soprattutto l’insulina, uno degli ormoni chiave del corpo umano. Quando si mangiano i carboidrati, infatti, il quantitativo di zuccheri (glucosio) presente nel sangue cresce, dando luogo al cosiddetto picco glicemico. A questo punto, l’organismo attiva l’unica soluzione che conosce per contrastare l’eccesso di zucchero nel sangue: produrre insulina per consumarlo. Il risultato, però, è che le cellule utilizzano il glucosio per produrre energia e non aggrediscono le riserve di grasso (cosa che sarebbe invece auspicabile)
La dipendenza da carboidrati
C’è, però, un altro meccanismo di cui l’insulina è responsabile e che è strettamente legato con il tema dell’ingrassare. È quello dell’aumento del senso di fame e della dipendenza da zuccheri. Torniamo per un attimo alla situazione di picco glicemico che consegue al consumo massiccio di carboidrati. L’organismo, come detto, risponde producendo insulina per abbassare drasticamente e immediatamente il livello di glucosio. Questo rapido precipitare del quantitativo di zuccheri, però, innesca nel corpo una sensazione di bisogno: è la fame, in particolare la fame di carboidrati. L’organismo, quindi, si trova a richiedere ciò che sa che gli dà energia. Insomma, un vero e proprio Carbo Loop, concetto che ho utilizzato come titolo del mio secondo libro per rendere l’idea della dipendenza da zuccheri raffinati. Una condizione ulteriormente aggravata dalla circostanza per cui, quando si consumano troppo cibi dolci, i recettori della dopamina, attivati troppo spesso, cominciano a non funzionare più correttamente.
In sintesi, quindi, i carboidrati fanno ingrassare per due ragioni principali:
- bloccano il consumo di grassi come fonte di energia;
- danno dipendenza.
Come riattivare il metabolismo: 6 consigli efficaci
Il blocco metabolico è una delle paure principali di chi si mette a dieta. Ecco perché spesso si sente parlare della necessità di sbloccare il metabolismo e farlo ripartire. Strategie efficaci ce ne sono, ma per applicarle bisogna prima conoscere bene il problema.
Riattivare il metabolismo, risvegliarlo, accelerarlo, sbloccarlo. Sono termini molto ricorrenti tra coloro che seguono una dieta o hanno intenzione di farlo. Intorno al metabolismo, infatti, ruotano gran parte delle gioie e dei dolori di chi vuole perdere peso e il famigerato blocco metabolico è il mostro di fronte a cui nessuno vorrebbe mai trovarsi. Ma esiste davvero questo blocco metabolico? E se esiste, da cosa è causato e come si riconosce? Soprattutto: come si fa a rimettere in moto un metabolismo bloccato? Questo articolo risponde proprio a queste domande, cercando di fare chiarezza su un tema affrontato spesso con troppa superficialità.
Cos’è il blocco metabolico
Nessuna risposta, però, può essere formulata se non si chiariscono prima i contorni dell’oggetto della discussione, cioè il blocco del metabolismo (o blocco metabolico). Con questa espressione si indica solitamente una condizione in cui l’organismo rallenta la sua spesa energetica. Detto in altre parole: consuma meno. In una persona che sta a dieta e vuole dimagrire, il blocco metabolico si traduce in uno stallo del peso: la bilancia smette di scendere. Ed è per questo che è così mal visto. Di per sé, però, il blocco metabolico non è una condizione patologica, non significa che il corpo funziona male. Anzi, è assolutamente fisiologico che il fisico si adatti alle condizioni esterne.
Sintomi e cause del metabolismo bloccato
Come si fa a rendersi conto se il proprio metabolismo ha bisogno di una scossa? Oltre al già menzionato stallo del peso, i principali sintomi di un blocco metabolico sono:
- senso di stanchezza e spossatezza;
- pressione bassa;
- gonfiore addominale;
- stitichezza.
Le cause più frequenti del rallentamento del metabolismo, invece, sono:
- diete fortemente ipocaloriche;
- età;
- stile di vita sedentario.
Cosa fare per sbloccare il metabolismo e riattivarlo
A questo punto, dopo aver passato in rassegna le caratteristiche, i sintomi e le cause del blocco metabolico, è arrivato il momento di qualche consiglio utile a sbloccare il metabolismo e a farlo ripartire. Di seguito, sei consigli diretti e pratici:
- Prediligere le dieta low carb o chetogeniche, che diminuiscono nettamente il quantitativo di carboidrati assunti e permettono di mantenere bassa l’insulina e migliorare insulino resistenza;
- Praticare il digiuno intermittente, nella forma del 16/8 o del 20/4, consumando due pasti al giorno (che però non significa mangiare poco);
- Utilizzare l’aceto di mele come condimento;
- Consumare molta verdura;
- Curare il riposo, dormendo un numero di ore sufficiente;
- Fare esercizio fisico, possibilmente praticando anche sollevamento pesi.
Come funziona una visita dal nutrizionista?
Come fare per mangiare pochi carboidrati? Ecco i cibi consigliati e quelli da evitare
Mangiare pochi carboidrati è possibile. I cibi con pochi o addirittura senza carboidrati, infatti, sono molti. Di seguito, un approfondimento dedicato agli alimenti consigliati o vietati in una dieta low carb, con alcuni consigli pratici.
Quando si decide di intraprendere la strada di una dieta low carb, come quella chetogenica (che ne prevede al massimo 20 grammi netti al giorno), ci sono due scogli psicologici da affrontare immediatamente. Il primo è legato all’abitudine che quasi tutti abbiamo di consumare moltissimi carboidrati durante la giornata (pane, pasta, pizza, frutta e via dicendo), fino ad esserne dipendenti, pur senza rendersene conto. La seconda difficoltà, invece, è frutto di un errata convinzione: quella che porta a pensare che i cibi low carb disponibili siano pochissimi e che quindi si è condannati a una dieta ripetitiva e stancante. Per fortuna, non è così. Se ci si ferma un attimo a pensare e ci si affida a un nutrizionista esperto, si scopre che sono tantissimi i cibi che contengono pochi carboidrati o addirittura non ne hanno affatto. Sono loro la risposta migliore alla domanda più ricorrente: come fare per mangiare pochi carboidrati?
Conosci già le diete con pochi carboidrati?
Cibi consigliati per la dieta low carb
Partiamo dai cibi consigliati a tutti coloro che scelgono una dieta con bassi carboidrati. È possibile dividerli in due grandi categorie: alimenti no carb e alimenti low carb.
Alimenti senza carboidrati
L’elenco dei cibi senza carboidrati è lungo e ben nutrito. Scorrendolo, ci si rende facilmente conto di come sia assolutamente possibile seguire una dieta low carb senza rinunciare al gusto. Ecco una lista non esaustiva degli alimenti consigliati:
- Carne bianca e rossa
- Salumi
- Pesce
- Frutti di mare
- Crostacei
- Uova
- Grassi di origine vegetale
- Grassi di origine animale
- Formaggi stagionati
- Parmigiano Reggiano e Grana Padano
- Ricotta
- Seitan (il glutine di frumento)
- Verdure a foglia verde (come lattuga, cavolo, zucchine, cetrioli, finocchi)
- Ravanelli
- Funghi
- Bevande non zuccherate (come thè, infusi, tisane)
Leggi di più su frutta e keto diet
Alimenti con pochi carboidrati
Invece, per quanto riguarda i cibi con pochi carboidrati, nella lista possono essere inseriti:
- Yogurt (sia classico che greco)
- Alcune tipologie di frutta fresca (come avocado, frutti rossi, pesche, clementine)
- Alcune tipologie di verdura (come pomodori, zucca e peperoni rossi e gialli)
- Frutta secca
Una menzione a parte la meritano tutti i prodotti che normalmente hanno molti carboidrati (e che sono nell’elenco del paragrafo seguente) ma che sempre più spesso vengono anche proposti in versione low carb dall’industria alimentare (come pane e pasta). Bisogna tenere bene a mente che si tratta di soluzioni di compromesso che è sempre meglio evitare, in favore del consumo di cibo vero.
Leggi di più su verdura e keto diet
I Cibi da evitare (perché hanno troppi carboidrati)
Infine, i cibi che finiscono sul banco degli imputati perché contengono troppi carboidrati e quindi vanno evitati se si sceglie un regime alimentare low carb.
- Prodotti da forno (come pane, cracker, biscotti, pizza)
- Dolci e merendine
- Pasta (anche integrale)
- Riso
- Patate
- Zucchero (sia bianco che di canna)
- Legumi
- Miele
- Sciroppi di vario genere
- Bevande zuccherate e succhi di frutta
- Birra
- Frutta
Approfondisci meglio la dieta chetogenica
Dieta low carb, breve guida all’alimentazione sana con pochi carboidrati
Adottare una dieta low carb, cioè a basso contenuto di carboidrati (come la chetogenica) porta molti benefici: perdita di massa grassa, miglior controllo della fame, contrasto all’aumento della glicemia e all’insorgenza di infiammazioni. Inoltre, l’alimentazione con pochi carboidrati non è così difficile da seguire. Sono molti, infatti, i cibi no carb o low carb.
Viviamo circondati dai carboidrati: pane, pasta, dolci, frutta. Per questo, sentire parlare di dieta low carb fa storcere il naso a tanti. Chi segue un regime alimentare tradizionale, infatti, ne consuma molti, lungo tutto l’arco della giornata, dalla colazione fino alla cena. È possibile farne a meno? A questa domanda, tante persone risponderebbero di no, perché immaginare di privarsene è davvero molto difficile. Eppure, i benefici che si ottengono quando si rinuncia ai carboidrati sono nettamente maggiori dei sacrifici richiesti per iniziare. E riuscire a seguire una dieta povera di carboidrati non è difficile come si pensa. Per capire meglio, però, è bene partire dal principio, cioè dalla semplice definizione di alimentazione low carb.
Cos’è una dieta low carb
Ebbene sì, una dieta low carb non solo è possibile ma addirittura consigliabile. Di cosa stiamo parlando? Il nome è abbastanza esplicativo: dieta low carb, ovvero con pochi carboidrati. Sotto questa etichetta, però, rientrano diversi regimi alimentari, che si distinguono a secondo del ruolo che assegnano agli altri macronutrienti, cioè proteine e grassi. Le opzioni sono essenzialmente due:
- diete low carb e high protein (anche dette iperproteiche): all’abbassamento del quantitativo di carboidrati corrisponde un innalzamento di quello delle proteine;
- diete low carb e high fat: sono i grassi a salire (è il caso della dieta chetogenica).
Dimagrire mangiando grassi si può
Quanti carboidrati mangiare in low carb?
In concreto, però, cosa significa dieta con pochi carboidrati? Qual è il quantitativo consentito? La regola generale, per poter parlare di alimentazione low carb, prevede un tetto massimo di 100 grammi di carboidrati al giorno. Nel caso della ketodiet, però, l’asticella si abbassa ulteriormente e non se ne possono consumare più di 20 grammi (al netto delle fibre). Per avere un metro di paragone concreto, basta considerare che un etto di pasta contiene tra i 60 e i 70 grammi di carboidrati (discorso analogo per il pane). Difficile, quindi, trovare spazio per questo tipo di alimenti in un regime chetogenico.
Cosa mangiare? I migliori alimenti con pochi (o senza) carboidrati
La necessità di eliminare quasi del tutto gli alimenti che contengono carboidrati fa scattare il panico nella mente di chi si approccia a uno stile di vita low carb. Ed ora cosa mi mangio? In realtà, la risposta è semplice: tutto. Nel senso che esiste una lunghissima lista di cibo senza o con pochi carboidrati.
Ad esempio, sono alimenti completamente no carb:
- carne;
- affettati;
- pesce;
- uova;
- olii di origine vegetale (come l’olio di oliva o l’olio di semi);
- burro;
- verdura a foglia verde;
- funghi;
- ricotta;
C’è poi un cospicuo elenco di alimenti con pochi carboidrati (da consumare quindi con moderazione), tra cui figurano:
- formaggi;
- frutta a guscio;
- latte vegetale;
- avocado;
- agrumi.
Alimenti concessi e alimenti vietati in chetogenica
I benefici di un’alimentazione low carb
A fronte di qualche rinuncia, una dieta low carb come la chetogenica restituisce numerosi benefici, che vanno oltre la perdita di peso (che è comunque sempre un elemento positivo, se si è in sovrappeso).
È semplice da seguire. Superato l’impatto iniziale, un’alimentazione con pochi carboidrati è più semplice da seguire, perché gli alimenti consentiti possono essere consumati senza prestare troppa attenzione alle calorie. Scegliere questo regime dietetico, quindi, significa liberarsi di una vera schiavitù, cioè quella della costante necessità di pesare e contare tutto, in modo quasi ossessivo.
Migliora il controllo della fame. I carboidrati sono la causa principale dell’irresistibile senso di fame che colpisce chi li consuma. Anzi, più che fame, bisognerebbe proprio chiamarla voglia di carboidrati. Mangiarli, infatti, comporta un aumento dell’insulina, che provoca un picco glicemico. Quando questo picco si esaurisce, il corpo inizia a desiderare nuovi carboidrati. Una dieta low carb spezza questo meccanismo, e rende la fame più controllabile e gestibile.
Leggi anche: Chetogenica e controllo della fame
Meno grasso, più muscoli. Eliminare i carboidrati non significa semplicemente perdere peso ma perdere grasso. La dieta low carb, infatti, spinge il corpo a trovare l’energia che gli serve bruciando i depositi di grassi (come avviene con la chetosi). Questo favorisce una ricomposizione corporea a favore della massa muscolare.
Azione antinfiammatoria e controllo della glicemia. Infine, una low carb incide positivamente sulla salute complessiva dell’organismo. Ad esempio, consente di tenere sotto controllo la glicemia (elemento fondamentale per chi soffre di diabete). Allo stesso tempo, nel lungo termine, permette di diminuire il rischio di insorgenza di fenomeni infiammatori, come artrite e dermatite.
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