Digiuno intermittente, dimagrire con un antico segreto di benessere

Il digiuno intermittente (conosciuto anche come intermittent fasting) è un antico segreto di benessere utilizzato oggi come metodo per perdere peso. Esistono diverse tipologie di digiuno a intermittenza, di cui le più semplici da realizzare sono il digiuno 16 ore e il digiuno 20 ore. In questo approfondimento, tutte le informazioni di base su questa utile pratica, per capire come funziona e se davvero fa dimagrire.

Nel variegato mondo della nutrizione e soprattutto dell’informazione sui temi dell’alimentazione accade spesso che esplodano delle “mode”. Per un periodo di tempo più o meno lungo non si fa altro che parlare di una particolare dieta o di uno specifico segreto di benessere. Tutti ne vogliono sapere di più, tutti ne discutono, tutti lo sperimentano (o dicono di farlo). È senza dubbio un fenomeno umano ma non per questo meno insidioso. La nutrizione, infatti, è una scienza e come tale dovrebbe essere tenuta ben lontana da logiche estremamente commerciali. Tra gli argomenti che ciclicamente conquistano la ribalta c’è anche quello del digiuno come tecnica di dimagrimento, in particolare nella forma del digiuno intermittente. Ecco perché è un argomento che merita di essere approfondito con un approccio scientifico.

Cos’è il digiuno intermittente

Come detto, grazie ai media, l termine digiuno intermittente è ormai entrato a far parte del linguaggio comune. Cosa si intenda davvero per digiuno intermittente, però, non tutti lo sanno, neanche tra coloro che ne parlano. Partiamo, quindi, dalla definizione più asciutta possibile:

il digiuno intermittente è un lasso di tempo variabile (ore, ma anche giorni) durante il quale non viene introdotto cibo all’interno del nostro organismo.

L’intermittenza, quindi, è data dal fatto che nella giornata si alternato finestre orarie in cui si mangia a finestre orarie in cui non si assume cibo. A pensarci bene, la maggior parte di noi già pratica il digiuno intermittente, in modo naturale e inconsapevole. Come? Consumando l’ultimo pasto del giorno, ossia la cena, e non mangiando fino al mattino successivo si digiuna per circa 10-12 ore. C’è poi chi a volte salta i pasti perché non ha fame (in coloro che seguono una dieta chetogenica, ad esempio, accade di frequente). Infine, se ci si vuole spingere verso riflessioni ancora più generali, non si può non sottolineare come l’astensione dal cibo sia praticata dall’uomo fin dalla notte dei tempi, magari per motivi spirituali o religiosi. Il digiuno intermittente, quindi, è solo il nome più recente di un antico segreto di benessere.


8 Hour Eating Window

16 hours fasting — skipping breakfast

Come funziona il digiuno intermittente e le diverse tipologie

Il funzionamento del digiuno intermittente è basato su un equilibrio. Il grasso corporeo non è altro che energia che, se non viene prontamente usata, viene ‘stoccata’ sotto forma di riserva energetica. Servirà a far fronte a periodi di carenza. Questo significa che il nostro corpo, nei secoli, si è evoluto per sostenere fasi di digiuno.

Perciò, quando mangiamo, ingeriamo più energia di quella che possiamo immediatamente utilizzare. Tale surplus di energia viene conservata per futuri utilizzi. L’insulina è l’ormone che governa questo processo. Quando mangiamo cibo l’insulina aumenta e permette di scindere i carboidrati in zuccheri semplici. Questi zuccheri semplici vengono ‘immagazzinati’ sotto forma di glicogeno in muscoli e fegato. Tuttavia, nel muscolo e nel fegato, lo spazio è limitato e quando arrivano più zuccheri di quelli che si possono immagazzinare questi vengono convertiti ex novo in grassi. Perché lo spazio per il grasso corporeo, invece, è illimitato.

Cosa succede, invece, quando si pratica il digiuno intermittente? Si innesca un meccanismo inverso. I livelli di zuccheri nel sangue scendono e diminuisce altresì anche il valore di insulina. Questo fa sì che vengano mobilitate le riserve di glicogeno (fonte energetica preferita) e, una volta esaurite queste, viene aggredito il grasso corporeo.

Questo significa che, se mangiamo ininterrottamente da quando ci svegliamo fino a quando andiamo a dormire, non diamo al nostro corpo il tempo di mobilitare le fonti energetiche che ha già accumulato nel corso della giornata e continueremo ad ingrassare.

Dal punto di vista della pratica concreta, il digiuno intermittente si può dividere in due principali strategie:

  • inferiore alle 24 ore;
  • superiore alle 24 ore.

Il primo è decisamente più semplice ed accessibile ed è l’unico, pertanto, che prenderemo in considerazione. È possibile praticarlo in due modalità:

  • digiuno intermittente 16/8;
  • digiuno intermittente 20/4.

Il digiuno intermittente con il metodo 16/8 (senza colazione o senza cena)

In questa tipologia di digiuno alternato, nell’arco della giornata, si ha a disposizione una finestra di 8 h per consumare i pasti (senza badare troppo alle calorie (ma sicuramente alla materia prima).  Per esempio, i pasti potrebbero essere consumati dalle 11.00 alle 19.00. Questo implica saltare la colazione o la cena. Il percorso è molto flessibile e va adottato alle esigenze personali.

Leggi di più sul digiuno intermittente 16 ore

Il digiuno intermittente con il metodo 20/4

Cambiano le proporzioni ma non il contenuto. Si ha a disposizione una finestra di 4 ore per mangiare e 20 ore di digiuno. I pasti potrebbero essere consumati, ad esempio, tra le 14.00 e le 18.00.

Leggi di più sul digiuno intermittente 20/4

I benefici del digiuno intermittente

Al di là delle modalità di digiuno intermittente, però, ciò che ha più senso chiedersi è se sia una pratica positiva o negativa per la salute. In sostanza: digiunare fa bene? La risposta è sì ma a una condizione: che si venga seguiti da un professionista e non ci si affidi al passaparola o al fai da te.

D’altra parte, fin dall’800 il digiuno è studiato e utilizzato a fini terapeutici. I benefici che può dare all’organismo sono molteplici:

  • perdita di peso;
  • aumento di energia;
  • controllo delle patologie legate a sovrappeso ed obesità (diabete di tipo II, sindrome metabolica etc.)
  • miglioramento della salute delle ossa;
  • miglioramento della salute cardiovascolare;
  • diminuzione del rischio di insorgenza di malattie infiammatorie;
  • diminuzione del rischio di insorgenza di tumori;
  • aumento della concentrazione e delle prestazioni cognitive.

Il merito di tutti questi benefici è legato soprattutto al calo dei livelli di insulina che il digiuno provoca. Benefici che sono addirittura amplificati se al digiuno intermittente si affianca la dieta chetogenica. Attenzione, però, perché se usato in modo sbagliato, il digiuno può anche apportare notevoli danni al nostro organismo. Ecco perché, come già detto, serve la supervisione di un professionista.

Leggi di più su benefici e controindicazioni del digiuno.

Il digiuno intermittente con il metodo 16/8 (senza colazione o senza cena)

In questa tipologia di digiuno intermittente, nell’arco della giornata, si ha a disposizione una finestra di 8 h per consumare i pasti, senza badare troppo alle calorie (ma sicuramente alla materia prima).  Per esempio, i pasti potrebbero essere consumati dalle 11.00 alle 19.00. Questo implica saltare la colazione o la cena. Il percorso è molto flessibile e va adottato alle esigenze personali.

Digiuno intermittente di 8h. Le immagini in verde indicano in consumo del grasso corporeo.

Il digiuno intermittente con il metodo 20/4

Cambiano le proporzioni ma non il contenuto. Si ha a disposizione una finestra di 4 ore per mangiare e 20 ore di digiuno. I pasti potrebbero essere consumati, ad esempio, tra le 14.00 e le 18.00.

Digiuno intermittente di 20h. Le immagini in verde indicano in consumo del grasso corporeo. Le immagini in rosso indicano l’accumulo di glicogeno.

FONTE. Dr. Jason Fung, MD. https://www.dietdoctor.com/short-fasting-regimens

Breve guida alle bevande ammesse (e a quelle vietate) in chetogenica

Non tutte le bevande possono essere consumate da chi segue una dieta chetogenica. Infatti, in molte bibite, sia alcoliche che analcoliche, c’è un’alta concentrazione di carboidrati, in forma di zuccheri. Ecco una breve guida per orientarsi.

Quando si inizia a seguire un nuovo regime alimentare è normale preoccuparsi di cosa si può e non si può mangiare. Più raro, invece, che ci si chieda cosa bere e cosa non bere. Niente di più sbagliato, perché anche tra le bevande, come tra gli alimenti, ci sono quelle ammesse e quelle da evitare. Un discorso che vale anche per chi segue una dieta chetogenica o low carb. Il fatto che le bibite siano liquide, infatti, non deve trarre in inganno: possono contenere carboidrati, ed anche in quantità molto importanti. Inoltre, c’è almeno un’altra buona ragione che deve portare a prestare attenzione a cosa si beve durante la keto diet: l’effetto psicologico. Le bevande dolci, infatti, anche nei casi in cui abbiano zero zuccheri, non aiutano a liberarsi dal legame con i cibi raffinati (che in alcuni casi assume i contorni di una vera dipendenza e come tale va contrastata). Procediamo, però, con ordine, analizzando separatamente le bevande consentite e quelle vietate in chetogenica.

Leggi anche: Alimenti concessi e vietati in keto diet

Le bevande ammesse in dieta chetogenica

Al primo posto tra le bevande ammesse c’è ovviamente l’acqua, sia liscia che frizzante. Può essere assunta senza limitazioni, l’importante è non bere mai controvoglia. E sempre senza limiti è possibile assumere thè, camomilla, tisane e infusi, ovviamente sempre e assolutamente senza zucchero. Anche nel caso del caffè (e in generale delle bevande che contengono caffeina), non ci sono controindicazioni particolari ed è possibile berne più di uno nella giornata; e ci si vuole dare una regola, si può scegliere di fermarsi a tre tazzine.

Nell’elenco delle bevande ammesse vanno inserite anche le già citate bibite zero zuccheri. Vale, però, il suggerimento accennato prima: consumarle con moderazione per non lasciarsi indurre in tentazione dal loro sapore dolce, che potrebbe portare la mente verso il desiderio di cibi vietati.

Capitolo a parte per gli alcolici. Quelli maggiormente compatibili con la dieta chetogenica sono gli spiriti, come brandy, whisky, gin, tequila, rhum, grappa. È evidente, però, che si tratta di super alcolici che devono essere consumati in quantità estremamente moderata e non certo per ragioni legate all’alimentazione. Anche il vino può essere bevuto, purché lo si faccia con moderazione, nell’ordine di massimo due bicchieri al giorno.

Ricapitolando, le bevande ammesse in chetogenica sono:

  • Acqua;
  • Thè, camomilla, tisane e infusi (senza zucchero);
  • Bibite zero zuccheri (con moderazione);
  • Vino (con moderazione, non più di due bicchieri al giorno);
  • Spiriti (brandy, whisky, gin, tequila, rhum, grappa e simili).

Leggi anche: I falsi miti sulla chetogenica

Cosa non bere in keto diet

Veniamo, invece, alle bevande vietate. Cosa non è possibile bere in chetogenica? La lista delle escluse è abbastanza lunga. In testa ci sono le bevande zuccherate, cioè la maggior parte di quelle che si trovano comunemente in commercio, succhi di frutta compresi. Via anche la maggior parte degli alcolici, soprattutto uno dei più amati in Italia, cioè la birra. Si tratta, infatti, di una delle bibite più cariche di carboidrati. Difficile anche potersi concedere un cocktail alcolico o analcolico in chetogenica, perché nella maggior parte dei casi vengono realizzati miscelando almeno una bevanda ricca di zuccheri. Infine, sono banditi anche i liquori.

Dunque, ricapitolando, le bevande vietate in chetogenica sono:

  • Succhi di frutta;
  • Bibite zuccherate;
  • Birra
  • Cocktail (salvo rare eccezioni);
  • Liquori.

Hai sgarrato? Niente panico, ecco cosa fare


Sgarro nella dieta, come gestirlo per non sentirsi troppo in colpa

Lo sgarro nella dieta è uno degli argomenti che suscitano maggior interesse e preoccupazione. Quante volte sgarrare? Quanto è grave concedersi uno sgarro ogni tanto? Cosa fare dopo aver sgarrato? Tutte domande lecite e che merita attenzione. Partendo, però, da un punto fermo: il cambio di mentalità che richiede la scelta di intraprendere un nuovo regime alimentare.

Ogni dieta ha il suo sgarro. O almeno questa è la percezione che si ha comunemente. Al punto che in molti piani alimentari viene espressamente previsto un pasto libero settimanale o addirittura un giorno libero, quelli che in lingua inglese si chiamano cheat meal e cheat day (popolari soprattutto nel linguaggio dei frequentatori di palestre). In altre circostanze, invece, lo sgarro non è programmato ma “capita”: una cena tra amici o di lavoro a cui non si può dire di no, una giornata caotica che costringe e mangiare fuori casa e di corsa, il desiderio particolarmente forte di un cibo “vietato”. Quando si sgarra si magia ciò che si vuole, senza preoccuparsi delle calorie e delle regole seguite per tutti gli altri pasti della settimana. Il problema, però, è che poi ci si ritrova a fare i conti con il senso di colpa e con l’ansia di aver rovinato il proprio percorso. Ma è davvero così dannoso sgarrare? Proviamo a capirlo rispondendo ad alcune delle domande più frequenti sul tema sgarro nella dieta.

Quanto fa male sgarrare dalla dieta? (h2)

Partiamo dalla gravità dello sgarro e dai presunti danni che questo provoca. E cominciamo distinguendo gli effetti sulla perdita di peso da quelli sulla motivazione, quindi sulla dimensione psicologica della dieta. Sotto il primo profilo, è corretto dire che lo sgarro è praticamente ininfluente. In un percorso alimentare serio e impostato da un esperto in nutrizione, che sia chetogenico o no, non è un pasto fuori dagli schemi a mandare all’aria tutto. Ovviamente, la cosa importante è che si rientri subito in carreggiata.

E qui viene in rilievo la seconda variabile citata: la testa. Lo sgarro spesso è una concessione ai propri desideri, un momento liberatorio rispetto alle regole della dieta vissute come costrizione. Ma se si subisce la dieta in questo modo, soprattutto in una fase iniziale, probabilmente significa che non si sono messe bene a fuoco le motivazioni. Perdere peso non può e non deve essere l’unica molla che fa decidere di cambiare alimentazione. Alla base di una scelta così importante deve esserci la volontà di modificare radicalmente la propria mentalità i termini di alimentazione, ad esempio sradicando la propria dipendenza dai cibi raffinati (che è all’origine di moltissimi problemi di sovrappeso e obesità). La vera conseguenza negativa dello sgarro, quindi, sta nella sua capacità di fiaccare la volontà. Ed è così che a uno sgarro ne segue un altro, magari a distanza ravvicinata e poi si continua a posticipare la ripresa della dieta, fino a che non si perdono le speranze. Per questo motivo, sarebbe meglio evitare lo sgarro quando si è all’inizi della nuova alimentazione mentre è possibile concederselo con più serenità quando la strada è già ben avviata.

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Cosa devo fare dopo lo sgarro? (h2)

La seconda domanda a cui è utile dare risposta è forse la più diffusa: dottore, ho sgarrato, ora che faccio? La risposta è semplice, riprendi la dieta, subito. Non c’è bisogno di immaginare contromisure particolari, penitenze o restrizioni ancora maggiori. Semplicemente, ci si rimette sul sentiero che si stava percorrendo e che da cui si è leggermente deviato.

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Cosa non devo fare dopo lo sgarro? (h2)

Molto più importante, invece, è avere chiaro cosa non fare dopo che si è sgarrato con un pasto libero: non ci si deve punire. È la reazione più naturale, figlia del senso di colpa: ho mangiato troppo e male, adesso digiuno. Niente di più sbagliato. Il digiuno intermittente (nella formula 16/8 o in quella 20/4) è un’ottima pratica ma non se viene utilizzato come arma per riequilibrare un eccesso calorico. Il rischio di un atteggiamento del genere, infatti, è di abbattere ancora di più il proprio umore e di finire intrappolati in un circolo vizioso fatto di privazioni mal sopportate, frustrazione e rifiuto della dieta. Insomma, il modo migliore per indurre sé stessi alla resa. È solo uno sgarro, non è la fine del mondo.

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I carboidrati fanno ingrassare?

Una delle ragioni principali per rinunciare ai carboidrati è che fanno ingrassare, se non si è in grado di gestirli con accortezza. Ma perché? Le ragioni hanno a che fare con il ruolo dell’insulina e con il tema della dipendenza da zuccheri e cibi raffinati. Scopri di più in questo approfondimento.

Quando si parla di ingrassare, i primi a finire sul banco degli imputati sono i grassi. D’altra parte, la stessa struttura della parola sembra indicare loro come colpevoli dello spiacevole aumento di peso: ingrassare, cioè mettere grasso. Ma è davvero così? Sono i grassi a far ingrassare? In realtà, no. Molto più probabile, invece, che i responsabili siano i tanto amati carboidrati, contenuti in moltissimi cibi di successo, come pane, pasta e frutta. A loro, infatti, è imputabile l'epidemia di sovrappeso e obesità che ha colpito la popolazione mondiale negli ultimi 30 anni. Proprio quei carboidrati che rappresentano la colonna portante di moltissimi regimi alimentari considerati sani e che invece la dieta chetogenica (e le diete low carb in generale) tendono a escludere quasi completamente.

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Perché i carboidrati fanno ingrassare? Il ruolo dell’insulina

Un’affermazione così importante, però, necessita di una spiegazione più approfondita. La domanda non può essere elusa: perché i carboidrati fanno ingrassare? La prima cosa da fare è chiarire che un argomento così complesso non può essere affrontato con affermazioni assolutistiche. Dire che i carboidrati fanno sempre e comunque ingrassare non è corretto. Ad esempio, se si è normopeso e si sa gestire la presenza di zuccheri nella propria dieta non si corre alcun rischio. Il problema è che la maggior parte delle persone non riesce ad essere così attenta. Ed è in questo caso che i carboidrati fanno ingrassare.

Il motivo principale è legato ai processi fisiologici che il consumo di questi nutrienti innesca e che coinvolgono soprattutto l’insulina, uno degli ormoni chiave del corpo umano. Quando si mangiano i carboidrati, infatti, il quantitativo di zuccheri (glucosio) presente nel sangue cresce, dando luogo al cosiddetto picco glicemico. A questo punto, l’organismo attiva l’unica soluzione che conosce per contrastare l’eccesso di zucchero nel sangue: produrre insulina per consumarlo. Il risultato, però, è che le cellule utilizzano il glucosio per produrre energia e non aggrediscono le riserve di grasso (cosa che sarebbe invece auspicabile)

La dipendenza da carboidrati

C’è, però, un altro meccanismo di cui l’insulina è responsabile e che è strettamente legato con il tema dell’ingrassare. È quello dell’aumento del senso di fame e della dipendenza da zuccheri. Torniamo per un attimo alla situazione di picco glicemico che consegue al consumo massiccio di carboidrati. L’organismo, come detto, risponde producendo insulina per abbassare drasticamente e immediatamente il livello di glucosio. Questo rapido precipitare del quantitativo di zuccheri, però, innesca nel corpo una sensazione di bisogno: è la fame, in particolare la fame di carboidrati. L’organismo, quindi, si trova a richiedere ciò che sa che gli dà energia. Insomma, un vero e proprio Carbo Loop, concetto che ho utilizzato come titolo del mio secondo libro per rendere l’idea della dipendenza da zuccheri raffinati. Una condizione ulteriormente aggravata dalla circostanza per cui, quando si consumano troppo cibi dolci, i recettori della dopamina, attivati troppo spesso, cominciano a non funzionare più correttamente.

In sintesi, quindi, i carboidrati fanno ingrassare per due ragioni principali:

  • bloccano il consumo di grassi come fonte di energia;
  • danno dipendenza.

Come riattivare il metabolismo: 6 consigli efficaci

Il blocco metabolico è una delle paure principali di chi si mette a dieta. Ecco perché spesso si sente parlare della necessità di sbloccare il metabolismo e farlo ripartire. Strategie efficaci ce ne sono, ma per applicarle bisogna prima conoscere bene il problema.

Riattivare il metabolismo, risvegliarlo, accelerarlo, sbloccarlo. Sono termini molto ricorrenti tra coloro che seguono una dieta o hanno intenzione di farlo. Intorno al metabolismo, infatti, ruotano gran parte delle gioie e dei dolori di chi vuole perdere peso e il famigerato blocco metabolico è il mostro di fronte a cui nessuno vorrebbe mai trovarsi. Ma esiste davvero questo blocco metabolico? E se esiste, da cosa è causato e come si riconosce? Soprattutto: come si fa a rimettere in moto un metabolismo bloccato? Questo articolo risponde proprio a queste domande, cercando di fare chiarezza su un tema affrontato spesso con troppa superficialità.

Cos’è il blocco metabolico

Nessuna risposta, però, può essere formulata se non si chiariscono prima i contorni dell’oggetto della discussione, cioè il blocco del metabolismo (o blocco metabolico). Con questa espressione si indica solitamente una condizione in cui l’organismo rallenta la sua spesa energetica. Detto in altre parole: consuma meno. In una persona che sta a dieta e vuole dimagrire, il blocco metabolico si traduce in uno stallo del peso: la bilancia smette di scendere. Ed è per questo che è così mal visto. Di per sé, però, il blocco metabolico non è una condizione patologica, non significa che il corpo funziona male. Anzi, è assolutamente fisiologico che il fisico si adatti alle condizioni esterne.

Sintomi e cause del metabolismo bloccato

Come si fa a rendersi conto se il proprio metabolismo ha bisogno di una scossa? Oltre al già menzionato stallo del peso, i principali sintomi di un blocco metabolico sono:

  • senso di stanchezza e spossatezza;
  • pressione bassa;
  • gonfiore addominale;
  • stitichezza.

Le cause più frequenti del rallentamento del metabolismo, invece, sono:

  • diete fortemente ipocaloriche;
  • età;
  • stile di vita sedentario.

Cosa fare per sbloccare il metabolismo e riattivarlo

A questo punto, dopo aver passato in rassegna le caratteristiche, i sintomi e le cause del blocco metabolico, è arrivato il momento di qualche consiglio utile a sbloccare il metabolismo e a farlo ripartire. Di seguito, sei consigli diretti e pratici:

  • Prediligere le dieta low carb o chetogeniche, che diminuiscono nettamente il quantitativo di carboidrati assunti e permettono di mantenere bassa l’insulina e migliorare insulino resistenza;
  • Praticare il digiuno intermittente, nella forma del 16/8 o del 20/4, consumando due pasti al giorno (che però non significa mangiare poco);
  • Utilizzare l’aceto di mele come condimento;
  • Consumare molta verdura;
  • Curare il riposo, dormendo un numero di ore sufficiente;
  • Fare esercizio fisico, possibilmente praticando anche sollevamento pesi.

Come funziona una visita dal nutrizionista?


Come fare per mangiare pochi carboidrati? Ecco i cibi consigliati e quelli da evitare

Mangiare pochi carboidrati è possibile. I cibi con pochi o addirittura senza carboidrati, infatti, sono molti. Di seguito, un approfondimento dedicato agli alimenti consigliati o vietati in una dieta low carb, con alcuni consigli pratici.

Quando si decide di intraprendere la strada di una dieta low carb, come quella chetogenica (che ne prevede al massimo 20 grammi netti al giorno), ci sono due scogli psicologici da affrontare immediatamente. Il primo è legato all’abitudine che quasi tutti abbiamo di consumare moltissimi carboidrati durante la giornata (pane, pasta, pizza, frutta e via dicendo), fino ad esserne dipendenti, pur senza rendersene conto. La seconda difficoltà, invece, è frutto di un errata convinzione: quella che porta a pensare che i cibi low carb disponibili siano pochissimi e che quindi si è condannati a una dieta ripetitiva e stancante. Per fortuna, non è così. Se ci si ferma un attimo a pensare e ci si affida a un nutrizionista esperto, si scopre che sono tantissimi i cibi che contengono pochi carboidrati o addirittura non ne hanno affatto. Sono loro la risposta migliore alla domanda più ricorrente: come fare per mangiare pochi carboidrati?

Conosci già le diete con pochi carboidrati?

Cibi consigliati per la dieta low carb

Partiamo dai cibi consigliati a tutti coloro che scelgono una dieta con bassi carboidrati. È possibile dividerli in due grandi categorie: alimenti no carb e alimenti low carb.

Alimenti senza carboidrati

L’elenco dei cibi senza carboidrati è lungo e ben nutrito. Scorrendolo, ci si rende facilmente conto di come sia assolutamente possibile seguire una dieta low carb senza rinunciare al gusto. Ecco una lista non esaustiva degli alimenti consigliati:

  • Carne bianca e rossa
  • Salumi
  • Pesce
  • Frutti di mare
  • Crostacei
  • Uova
  • Grassi di origine vegetale
  • Grassi di origine animale
  • Formaggi stagionati
  • Parmigiano Reggiano e Grana Padano
  • Ricotta
  • Seitan (il glutine di frumento)
  • Verdure a foglia verde (come lattuga, cavolo, zucchine, cetrioli, finocchi)
  • Ravanelli
  • Funghi
  • Bevande non zuccherate (come thè, infusi, tisane)

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Alimenti con pochi carboidrati

Invece, per quanto riguarda i cibi con pochi carboidrati, nella lista possono essere inseriti:

  • Yogurt (sia classico che greco)
  • Alcune tipologie di frutta fresca (come avocado, frutti rossi, pesche, clementine)
  • Alcune tipologie di verdura (come pomodori, zucca e peperoni rossi e gialli)
  • Frutta secca

Una menzione a parte la meritano tutti i prodotti che normalmente hanno molti carboidrati (e che sono nell’elenco del paragrafo seguente) ma che sempre più spesso vengono anche proposti in versione low carb dall’industria alimentare (come pane e pasta). Bisogna tenere bene a mente che si tratta di soluzioni di compromesso che è sempre meglio evitare, in favore del consumo di cibo vero.

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I Cibi da evitare (perché hanno troppi carboidrati)

Infine, i cibi che finiscono sul banco degli imputati perché contengono troppi carboidrati e quindi vanno evitati se si sceglie un regime alimentare low carb.

  • Prodotti da forno (come pane, cracker, biscotti, pizza)
  • Dolci e merendine
  • Pasta (anche integrale)
  • Riso
  • Patate
  • Zucchero (sia bianco che di canna)
  • Legumi
  • Miele
  • Sciroppi di vario genere
  • Bevande zuccherate e succhi di frutta
  • Birra
  • Frutta

Approfondisci meglio la dieta chetogenica


Dieta low carb, breve guida all’alimentazione sana con pochi carboidrati

Adottare una dieta low carb, cioè a basso contenuto di carboidrati (come la chetogenica) porta molti benefici: perdita di massa grassa, miglior controllo della fame, contrasto all’aumento della glicemia e all’insorgenza di infiammazioni. Inoltre, l’alimentazione con pochi carboidrati non è così difficile da seguire. Sono molti, infatti, i cibi no carb o low carb.

Viviamo circondati dai carboidrati: pane, pasta, dolci, frutta. Per questo, sentire parlare di dieta low carb fa storcere il naso a tanti. Chi segue un regime alimentare tradizionale, infatti, ne consuma molti, lungo tutto l’arco della giornata, dalla colazione fino alla cena. È possibile farne a meno? A questa domanda, tante persone risponderebbero di no, perché immaginare di privarsene è davvero molto difficile. Eppure, i benefici che si ottengono quando si rinuncia ai carboidrati sono nettamente maggiori dei sacrifici richiesti per iniziare. E riuscire a seguire una dieta povera di carboidrati non è difficile come si pensa. Per capire meglio, però, è bene partire dal principio, cioè dalla semplice definizione di alimentazione low carb.

Cos’è una dieta low carb

Ebbene sì, una dieta low carb non solo è possibile ma addirittura consigliabile. Di cosa stiamo parlando? Il nome è abbastanza esplicativo: dieta low carb, ovvero con pochi carboidrati. Sotto questa etichetta, però, rientrano diversi regimi alimentari, che si distinguono a secondo del ruolo che assegnano agli altri macronutrienti, cioè proteine e grassi. Le opzioni sono essenzialmente due:

  • diete low carb e high protein (anche dette iperproteiche): all’abbassamento del quantitativo di carboidrati corrisponde un innalzamento di quello delle proteine;
  • diete low carb e high fat: sono i grassi a salire (è il caso della dieta chetogenica).

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Quanti carboidrati mangiare in low carb?

In concreto, però, cosa significa dieta con pochi carboidrati? Qual è il quantitativo consentito? La regola generale, per poter parlare di alimentazione low carb, prevede un tetto massimo di 100 grammi di carboidrati al giorno. Nel caso della ketodiet, però, l’asticella si abbassa ulteriormente e non se ne possono consumare più di 20 grammi (al netto delle fibre). Per avere un metro di paragone concreto, basta considerare che un etto di pasta contiene tra i 60 e i 70 grammi di carboidrati (discorso analogo per il pane). Difficile, quindi, trovare spazio per questo tipo di alimenti in un regime chetogenico.

Cosa mangiare? I migliori alimenti con pochi (o senza) carboidrati

La necessità di eliminare quasi del tutto gli alimenti che contengono carboidrati fa scattare il panico nella mente di chi si approccia a uno stile di vita low carb. Ed ora cosa mi mangio? In realtà, la risposta è semplice: tutto. Nel senso che esiste una lunghissima lista di cibo senza o con pochi carboidrati.

Ad esempio, sono alimenti completamente no carb:

  • carne;
  • affettati;
  • pesce;
  • uova;
  • olii di origine vegetale (come l’olio di oliva o l’olio di semi);
  • burro;
  • verdura a foglia verde;
  • funghi;
  • ricotta;

C’è poi un cospicuo elenco di alimenti con pochi carboidrati (da consumare quindi con moderazione), tra cui figurano:

  • formaggi;
  • frutta a guscio;
  • latte vegetale;
  • avocado;
  • agrumi.

Alimenti concessi e alimenti vietati in chetogenica

I benefici di un’alimentazione low carb

A fronte di qualche rinuncia, una dieta low carb come la chetogenica restituisce numerosi benefici, che vanno oltre la perdita di peso (che è comunque sempre un elemento positivo, se si è in sovrappeso).

È semplice da seguire. Superato l’impatto iniziale, un’alimentazione con pochi carboidrati è più semplice da seguire, perché gli alimenti consentiti possono essere consumati senza prestare troppa attenzione alle calorie. Scegliere questo regime dietetico, quindi, significa liberarsi di una vera schiavitù, cioè quella della costante necessità di pesare e contare tutto, in modo quasi ossessivo.

Migliora il controllo della fame. I carboidrati sono la causa principale dell’irresistibile senso di fame che colpisce chi li consuma. Anzi, più che fame, bisognerebbe proprio chiamarla voglia di carboidrati. Mangiarli, infatti, comporta un aumento dell’insulina, che provoca un picco glicemico. Quando questo picco si esaurisce, il corpo inizia a desiderare nuovi carboidrati. Una dieta low carb spezza questo meccanismo, e rende la fame più controllabile e gestibile.

Leggi anche: Chetogenica e controllo della fame

Meno grasso, più muscoli. Eliminare i carboidrati non significa semplicemente perdere peso ma perdere grasso. La dieta low carb, infatti, spinge il corpo a trovare l’energia che gli serve bruciando i depositi di grassi (come avviene con la chetosi). Questo favorisce una ricomposizione corporea a favore della massa muscolare.

Azione antinfiammatoria e controllo della glicemia. Infine, una low carb incide positivamente sulla salute complessiva dell’organismo. Ad esempio, consente di tenere sotto controllo la glicemia (elemento fondamentale per chi soffre di diabete). Allo stesso tempo, nel lungo termine, permette di diminuire il rischio di insorgenza di fenomeni infiammatori, come artrite e dermatite.

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Integratori e dieta chetogenica, facciamo chiarezza

Quando si segue una dieta chetogenica si devono assumere degli integratori? E quali? In che dosaggio? Sul tema circolano numerose informazioni, spesso fuorvianti. D’altra parte, gli integratori hanno conosciuto un crescente successo negli anni e sono ampiamente commercializzati. Questo articolo prova a fare chiarezza sul rapporto tra ketodiet e integrazione, partendo ovviamente da riferimenti scientifici e sfatando i falsi miti del “fai da te”.

Tra coloro che si approcciano alla dieta chetogenica c’è la diffusa convinzione che questo regime alimentare vada accompagnato con l’assunzione di numerosi integratori. Lo può confermare qualsiasi professionista della nutrizione che utilizzi la keto diet nel suo lavoro: i pazienti chiedono sempre quali integratori debbano prendere. E lo confermano anche i numerosi contenuti online dedicati al tema degli integratori e dei pasti sostituivi in chetogenica (le cosiddette bustine, a cui è dedicato un intero articolo che si può legger qui). Tra i motivi che hanno portato al radicamento di questa idea, c’è senza dubbio anche la popolarità che nel tempo hanno acquisito gli integratori, oggi ampiamente commercializzati e molto di moda. Ma c’è davvero bisogno di integrare quando si segue una dieta chetogenica? Ed eventualmente quali e quanti integratori vanno assunti? Visto l’interesse intorno alla questione, è bene fare chiarezza. Partendo, però, da una doverosa premessa.

Cosa sono e a cosa servono gli integratori?

Cominciamo dalla prima domanda: cosa sono gli integratori? Il termine raccoglie una pluralità di sostanze che hanno un denominatore comune: contengono elementi che fisiologicamente sono già presenti nel corpo umano, come vitamine, minerali, aminoacidi, fibre, acidi grassi e via dicendo. Gli integratori possono assumere diverse forme: compresse, pasticche effervescenti, bustine, eccetera. Ciò che rimane invariata è la loro funzione: integrare la presenza di uno specifico elemento (o di più elementi) nel corpo. La differenza con i farmaci è netta ed evidente. Questi ultimi, infatti, servono a contrastare gli squilibri causata da una patologia, ripristinando una condizione sana.

L’integrazione nella dieta chetogenica

Alla luce della definizione appena data, è possibile risolvere i dilemmi dell’integrazione nella dieta chetogenica. Serve? Non serve? Quali integratori? Quanti? La risposta è piuttosto semplice: in keto diet (come in qualsiasi atro regime alimentare) gli integratori vanno assunti solo se e quando servono. E la valutazione sulla necessità o meno di integrazione non può che essere fatta da un nutrizionista. Bisogna assolutamente tenersi alla larga da soluzioni fai da te o dai consigli di amici e parenti. È uno specialista a poter dire, analisi alla mano, se c’è qualche carenza che va integrata e se non ci sono controindicazioni all’assunzione di prodotti. In alcuni casi, infatti, prendere gli integratori sbagliati può essere dannoso, come nel caso dell’assunzione di fibre per chi ha problemi gastrointestinali. Altre volte, invece, può essere utile ma solo in particolari periodi dell’anno (come il magnesio in estate). Infine, molto spesso, è semplicemente inutile. Infatti, se ben impostata da uno specialista, la dieta chetogenica è assolutamente in grado di fornire all’organismo tutto ciò di cui ha bisogno. L’importante è che:

  • sia strutturata e seguita da un nutrizionista;
  • si tratti di una keto diet che prevede il consumo di cibo vero;
  • si selezionino gli alimenti in base alla qualità (ad esempio: uova biologiche o carne da allevamenti italiani).

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Digiunare fa bene o fa male?

Digiunare fa bene? Digiunare fa male? Spesso, quando si parla di benefici e controindicazioni del digiuno, ci si divide in fazioni contrapposte, dimenticando di cercare nella scienza la risposta corretta. Questo approfondimento prova a fare chiarezza su questa antica contrapposizione: digiuno sì o no?

Quello del digiuno è uno strumento che divide. C’è chi lo pratica con regolarità, chi se ne serve in alcune fasi della propria vita per dimagrire e chi lo usa come rifugio per rimettersi in riga dopo un periodo di eccessi con il cibo. Ma c’è anche chi lo ritiene dannoso per la salute e quindi se ne tiene a debita distanza. Una sfida tra favorevoli e contrari che si gioca tutta attorno al solito dilemma: digiunare fa bene o fa male? Per fortuna, la scienza ha una risposta chiara (ma non banale) a questa domanda, elaborata sulla base di studi ed evidenze.

I benefici del digiuno

In questa analisi sui benefici e sulle controindicazioni del digiuno è bene partire da una costatazione fin troppo semplice ma cruciale: digiunare non è un’invenzione moderna, una moda lanciata da chissà quale guru, bensì una pratica antica. Anzi, se si guarda alla tipologia di digiuno attualmente più diffusa, cioè il digiuno intermittente (intermittent fasting, nella versione 16/8 o 20/4), ci si rende conto che è un’abitudine quasi innata nell’essere umano. Qualunque persona, infatti, sta senza mangiare per almeno 8-10 ore, se si conta il tempo che passa dalla cena alla colazione del giorno dopo. Se si agisce con criterio, quindi, digiunare non fa male ma bene.

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I benefici del digiuno sulla salute sono molteplici. Il primo vantaggio da sottolineare è che facilita il dimagrimento, consentendo di diminuire le riserve di grasso. Quando mangiamo normalmente, il nostro corpo cerca di creare delle riserve energetiche utilizzando l’eccesso di cibo ingerito. Nascono così i depositi di grasso, il cui scopo è permettere all’organismo di affrontare periodi di ipotetiche “vacche magre”. Il digiuno simula proprio questa situazione di carenza di cibo. Digiunare abbassa i livelli di zucchero nel sangue e fa scendere anche quelli dell’insulina. A questo punto, per prima cosa vengono mobilitate le riserve di glicogeno, esaurite le quali, il corpo passa ad aggredire le riserve di grasso. Ed è così che non solo si dimagrisce ma si ottiene anche un effetto di ricomposizione corporea a vantaggio della massa magra.   

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Ulteriori effetti benefici del digiuno sono:

  • miglioramento della salute delle ossa;
  • miglioramento della salute cardiovascolare;
  • diminuzione del rischio di insorgenza di malattie infiammatorie;
  • diminuzione del rischio di insorgenza di tumori.

Digiunare fa male se…

A questo punto, sembra evidente che la tesi più accreditata sia quella di coloro che dicono che il digiuno fa bene. Ed è senza dubbio così, ma ad una condizione: che si evitino le soluzioni fai da te e ci si affidi a un professionista specializzato in nutrizione. Se lo si fa in modo non corretto, infatti, digiunare può fare male. Il digiuno va impostato nel modo giusto, con regole precise e calibrate sullo stato di salute di chi deve praticarlo. Perché digiunare è cosa ben diversa dal semplice non mangiare. Non si improvvisa, non è per tutti uguale, non va standardizzato. Altrimenti, i rischi per la salute superano i benefici e si può andare incontro a danneggiamento del metabolismo, perdita di massa magra, indebolimento generale e altre controindicazioni, anche serie.

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Come misurare la chetosi: tipologie di test e consigli pratici

Misurare la chetosi, quando si segue una dieta chetogenica, è possibile grazie a test specifici che indagano la presenza di corpi chetonici nel sangue e nelle urine. È bene però sapere che i test della chetosi hanno un margine di errore e dipendere da queste misurazioni è sbagliato. Ciò che davvero conto è sentirsi meglio e vedersi meglio, registrando progressivi risultati in termini di perdita di peso, ricomposizione corporea e riduzione delle circonferenze corporee.

La chetosi è il meccanismo su cui si fonda la dieta chetogenica, come rivela chiaramente anche il nome (qui un approfondimento sul tema). Entrare e rimanere in chetosi, quindi, è l’obiettivo di chi segue una keto diet. Un risultato che si ottiene riducendo drasticamente il quantitativo di carboidrati consumati in una giornata (approccio low carb), in modo da indurre l’organismo ad utilizzare le riserve di grasso come fonte di energia, al posto degli zuccheri. Ma come si fa ad essere certi di essere in chetosi? È possibile misurare questa condizione? Sì, la misurazione della chetosi è possibile, attraverso l’utilizzo di appositi keto test. Questi strumenti, però, vanno usati con intelligenza e soprattutto non bisogna diventarne dipendenti e ossessionati.

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I test per misurare la chetosi: sangue, urine e respiro

Le modalità attraverso cui è possibile misurare la sussistenza e l’intensità dello stato di chetosi sono essenzialmente tre: test del sangue, test delle urine e test del respiro. Tutti sono facilmente reperibili in farmacia e possono essere fatti a casa propria.

Il keto test ematico misura direttamente la quantità di chetoni presenti nel sangue (cioè l’elemento fondante della chetosi). Basta pungersi la punta del dito (come nei test dell’insulina per diabetici) e stillare una goccia di sangue da far cadere su un’apposita striscia assorbente.

Molto semplice è anche il test delle urine. In questo caso è necessario bagnare l’apposita striscia assorbente con dell’urina. Nel giro di pochi secondi, il test si colora con intensità differente a seconda del quantitativo di corpi chetonici presenti nel liquido. È bene precisare che, con questo test, vengono conteggiati chetoni scartati dall’organismo, che ormai ne sono usciti perché espulsi proprio attraverso le urine.

Terzo metodo: il test con respiratore, dentro cui bisogna semplicemente espirare. Anche in questo caso, l’esame è molto semplici da realizzare ed è sempre basato su una misurazione indiretta, cioè la quantità di acetone presente nel respiro.

Quanto sono attendibili i test per la misurazione dei chetoni?

A questo punto, è normale chiedersi quanto siano attendibili questi test di misurazione della chetosi e quale lo sia maggiormente, anche per farsi guidare nell’acquisto. Il test più affidabile è senza dubbio quello del sangue, perché misura direttamente i chetoni presenti nel flusso ematico. Urina e respiro, invece, sono un po’ meno attendibili perché si basano su misurazioni indirette, di chetoni che sono ormai usciti dal corpo e rappresentano quindi uno scarto. C’è da dire, però, che il risultato che danno rappresenta comunque un buon punto di riferimento a fronte di una maggior facilità di utilizzo.

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Quindi, bilanciando la fruibilità con l’attendibilità, il test consigliabile è quello delle urine. Però, se si soffre di patologie particolari (come l’epilessia), è meglio affidarsi al test del sangue. In questo senso, la migliore indicazione non può che arrivare dal proprio specialista.

Ciò che è molto importante capire quando si parla di misurazione della chetosi è che non bisogna avere verso questi strumenti un approccio ossessivo, uguale a quello che molti hanno verso la bilancia. È bene misurare periodicamente lo stato di chetosi, soprattutto nella fase iniziale della dieta chetogenica, per sapere che percorso si sta intraprendendo. Allo stesso tempo, però, non si deve esagerare, finendo per essere dipendenti da una continua verifica della propria condizione. Il rischio, infatti, è quello di indurre un meccanismo stressante che può anche portare a frustrazioni e magari a lasciar perdere la dieta.

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